Marzo 7, 2023 0

Smart working? Post pandemia lo fa solo un occupato su sei

da Il Sole 24 Ore

 

La pandemia non è stato il volano dello smart working come si profetizzava. Solamente un occupato su sei lavora da remoto, quando secondo le stime per il 2023 dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP) sulla composizione della forza lavoro nazionale, potrebbero usufruirne 2,5 occupati su sei, cioè quattro persone su dieci. Dai dati non emerge infatti quel cambio di paradigma lavorativo nel nostro Paese. Come se durante la pandemia avessimo vissuto in ‘una grande bolla’ e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro che preveda una combinazione di fasi di lavoro da remoto con fasi di lavoro in presenza. L’emergenza sanitaria aveva sì raddoppiato il numero di persone che lavoravano in “smart”, ma già nel 2021 il tasso di crescita del ricorso al lavoro agile è decisamente rallentato. Nel 2020 lavorava da casa almeno parzialmente il 12,1% dei dipendenti, nel 2021 il 13,8% (il 14,9% dei lavoratori nel loro complesso). Va detto che l’Italia prima della pandemia aveva percentuali di occupati che accedevano allo smart working ben al di sotto della media europea.

I dati della Quinta Indagine INAPP, che ha coinvolto 15.000 occupati nel 2021 e 5.000 datori di lavoro, ci dicono che la quota del smart-workers varia dal 25% per le professioni intellettuali o esecutive al 2% di quelle non qualificate.

Fra i dipendenti, si è passati da una diffusione dello “smart-working” a casa propria per tutta la settimana lavorativa dello 0,6% in epoca pre-COVID al 3,9% nel 2021, a cui si aggiunge un 4,4% degli occupati che lavora in egual misura da casa o in azienda e un altro 8,6% che sceglie un luogo pubblico come un co-working. Nel complesso l’81% dei dipendenti a tempo indeterminato deve non gode di smart working, contro l’89% del periodo pre-COVID. Lo stesso per il 66% dei dipendenti a termine, il 74% dei collaboratori, e il 77% dei lavoratori autonomi.

Ma chi può realisticamente lavorare in smart working? Sul totale delle imprese, l’80% lavoratori svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza, ma osservando la dimensione della sede lo scenario cambia. La quota di lavoratori che svolge attività non telelavorabili diminuisce all’aumentare della dimensione: è l’84,4% per le aziende fino a 5 addetti; il 79,9% in quelle fino a 9 addetti; il 68,6% nelle realtà con 10-49 addetti; il 56,4% in quelle con 50-249 addetti; e solo il 34,2% nelle grandi aziende con più di 250 lavoratori.

Un altro aspetto che emerge dall’indagine è che le imprese che individuano più criticità del telelavoro sono quelle che ne usufruiscono di meno. Il 31% delle aziende esaminate che usano lo smart working e il 41% di quelle che non lo utilizzano, pensano che sia più difficile monitorare il lavoro svolto se una persona lavora da remoto. Il 42% delle aziende smart e il 51% di quelle non smart, ritiene inoltre che in questo modo non si facilitino i rapporti fra lavoratori e responsabili.

Solo il 47% delle aziende che non permettono a nessuno al momento di lavorare da casa pensa che in questo modo si incrementerebbe la produttività, contro il 66% delle aziende che contemplano il telelavoro. A ritenere che lo smart working aumenti la responsabilizzazione dei dipendenti è il 69% di chi lo permette e il 41% di chi non lo permette. Addirittura il 64% delle aziende che consentono lo smart working pensa di aver ridotto così l’assenteismo, contro il 39% di chi ancora non ha fatto questo passo.

In ogni caso chi riesce a lavorare da casa, anche solo una parte del tempo, dichiara benefici netti nella qualità della propria vita. Stando a quanto emerge dall’indagine, il 90% di essi risparmia tempo negli spostamenti, fattore che si traduce per l’80% degli smart-workers in un netto miglioramento della qualità vita-lavoro. L’aspetto interessante è che la pensa in questo modo anche il 70% dei datori di lavoro. L’altra faccia della medaglia è che per il 60% degli intervistati non vedere di persona i colleghi porta a un aumento dell’isolamento e a qualche incomprensione in più in ufficio; mentre per la metà dei datori di lavoro, non guardarsi in faccia dal vivo influisce sul senso di appartenenza al team. C’è poi il tema dei costi fissi di lavorare in casa, che sono a carico del lavoratore: per la metà degli intervistati questo costituisce un problema che va affrontato.

 

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