Febbraio 9, 2021 | 0 |
Tratto da excursusplus.it (20.01.2021)
Per me valutare vuol dire stare in un contesto, entrare in relazione con esso e con chi quel contesto lo anima. Non è un’azione di laboratorio o desk ma la creazione di interazioni finalizzate a cogliere il valore che un progetto, un servizio, un intervento ha prodotto per quello specifico contesto.
Prima di definire il metodo da perseguire e gli strumenti da utilizzare viene l’analisi del contesto, la comprensione dei codici culturali che lo caratterizzano, l’osservare, anche in modo partecipante, le persone (beneficiarie e più in generale stakeholder) che in esso si trovano.
Emblematica a tal proposito è stata per me la valutazione di un bel progetto sviluppato da CCM – Comitato Collaborazione Medica in Burundi e finanziato dalla Commissione Europea. Focus del progetto era la decentralizzazione dei servizi (sociosanitari) destinati alle donne vittime di abusi sessuali; fine ultimo di tutto ciò la cura e l’empowerment di queste donne, nella maggior parte dei casi abitanti contesti rurali, connotati da differenti culture locali e da lingue distinte da quelle ufficiali, il kirundi e il francese.
Quell’esperienza di valutazione (richiestaci a chiusura del progetto) mi ha posto di fronte a dilemmi e questioni che tanti valutatori (Judith Tendler in primis – un punto di riferimento per me), a partire da un ambito di cooperazione internazionale ma non solo, si trovano ad affrontare.
Se valutare è entrare in relazione e non semplicemente misurare, le culture che caratterizzano un’organizzazione, uno specifico progetto, l’ambiente in cui si colloca, non sono un elemento secondario. Considerare a priori la dimensione culturale vuol dire cogliere i limiti del nostro metodo e degli strumenti che utilizziamo come valutatori, non in itinere ma prima di avviare il processo valutativo; vuol dire spingerci verso metodi e strumenti differenti: fatto salvo il rigore (che è proprio del ricercatore e un valutatore è un ricercatore), la creatività è in alcuni casi la strada da percorrere per entrare in relazione nel modo più efficace e cogliere il valore.
Laddove il valutatore, come nello specifico dell’esperienza di valutazione in Burundi, non condivida con i beneficiari di un progetto una medesima lingua e qualsiasi strumento valutativo che utilizzi la parola scritta si trovi a fare i conti con l’incapacità di leggere (condizione che può valere anche nel caso di bambini in età prescolare) allora è necessaria affidarsi, per valutare con rigore, alla creatività, all’esperienza altrui e, in alcuni casi, alla figura di un mediatore (un esperto e saggio Virgilio).
È in queste situazioni che il valutare (dare valore e non solo misurare, non mi stanco di ripeterlo) diventa una sfida e mette in gioco tutta la responsabilità interpretativa del valutatore. Cogliere l’impatto autentico che un progetto ha sui suoi beneficiari può permettere ad altri di accedere a quei benefici.
Motivo per cui l’atto del valutare deve essere condiviso: non un singolo valutatore ma un’équipe, dove ciascuno possa, a fronte delle proprie sensibilità e competenze, interagire al meglio con un contesto, con il progetto, con l’organizzazione che l’ha messo in campo e con i suoi beneficiari. Pensare che l’azione di valutazione sia un’azione individuale (di un singolo professionista) rischia, a fronte di progetti e contesti complessi, di non essere efficace, di ridursi a mera rendicontazione.
Valutare in Burundi (dove concretamente chi si è occupato della parte front della valutazione, Maria Chiara Cremona, recatasi in quel Paese) è stata occasione per una rinnovata riflessione sui processi valutativi, sui contesti culturali in cui si collocano e sull’impatto che lo stesso processo ha sul contesto/progetto che lo accoglie.